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Il 9 gennaio 2020 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che le autorità sanitarie cinesi hanno individuato un nuovo ceppo di coronavirus mai identificato prima nell'uomo, provvisoriamente chiamato 2019-nCoV e classificato in seguito ufficialmente con il nome di SARS-CoV-2. Il virus è associato a un focolaio di casi di polmonite registrati a partire dal 31 dicembre 2019 nella città di Wuhan, nella Cina centrale. L'11 febbraio, l'OMS ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus è stata chiamata COVID-19. Il 30 gennaio, l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha confermato i primi due casi di infezione da COVID-19 in Italia e il 21 febbraio ha confermato il primo caso autoctono in Italia.

L’ISS dal 28 febbraio coordina un sistema di sorveglianza che integra a livello individuale i dati microbiologici ed epidemiologici forniti dalle Regioni e Provincie Autonome (PA) e dal Laboratorio nazionale di riferimento per SARS-CoV-2 dell’ISS. Ogni giorno un’infografica dedicata riporta – con grafici, mappe e tabelle - una descrizione della diffusione nel tempo e nello spazio dell’epidemia di COVID-19 in Italia e una descrizione delle caratteristiche delle persone affette.



Indietro COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale

ISS 22 luglio 2020 - Adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione con Sars-CoV-2 potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I – uno dei più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo – e rafforzare l'immunità antivirale innata.

E’ questa l’ipotesi proposta da Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’ISS nella lettera pubblicata questo mese sull'American Journal of Physiology – Endocrinology and Metabolism, nell’ambito della corrispondenza scientifica iniziata ad aprile sulla stessa rivista da Hrvoje Jakovac dell'Università di Rijeka (Croazia), con una lettera dal titolo: “COVID-19 and vitamin D-Is there a link and an opportunity for intervention? (COVID-19 e vitamina D - esiste un legame ed una opportunità di intervento?)

“La nostra ipotesi – spiega Maria Cristina Gauzzi - si basa su dati della letteratura che dimostrano come la vitamina D, oltre ad avere un effetto antivirale diretto nei confronti di alcuni virus, possa cooperare con l’interferone di tipo I per potenziare le risposte antivirali”.

Questo fenomeno – si osserva nella lettera - è stato descritto nell’infezione con il virus dell’epatite C e con rinovirus. Inoltre, evidenze a supporto di un effetto additivo della vitamina D e dell’interferone di tipo I nell’induzione di geni ad attività antivirale provengono anche da studi condotti in pazienti affetti da sclerosi multipla.

“Nelle fasi più avanzate del COVID-19 l’attività immunomodulatoria della vitamina D potrebbe invece contribuire a ridurre il danno legato all’iperinfiammazione nei pazienti con forme severe di malattia. L’interazione tra vitamina D e interferone di tipo I - concludono le due ricercatrici - è ancora poco studiata ma potrebbe rivelarsi di grande importanza, anche in considerazione del fatto che dati recenti della letteratura indicano che le complicanze dell'infezione da SARS-CoV-2 possono essere conseguenti ad una produzione insufficiente o ritardata di interferone nella primissima fase dell'infezione”.


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