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Mielofibrosi, questa sconosciuta

Pubblicato 26/01/2005 - Modificato 10/02/2020

a cura di Anna Rita Franco Migliaccio*, Rosa Alba Rana** e Alessandro M. Vannucchi***
La mielofibrosi idiopatica è un disordine mieloproliferativo cronico caratterizzato dalla deposizione di quantità variabili di fibre nel midollo osseo fino alla fibrosi estesa associata ad osteosclerosi, cioè all'aumento anche del tessuto osseo; dallo sviluppo di sedi extramidollari di emopoiesi,  specialmente nella milza che risulta fortemente ingrandita; dalla comparsa di anemia, con alterazioni tipiche degli eritrociti che assumono una forma a lacrima, e di leucocitosi con presenza di elementi immaturi in circolo. E' caratteristico inoltre il riscontro di un elevato numero di cellule progenitrici emopoietiche CD34+ nel sangue periferico. La mielofibrosi  può manifestarsi in quanto tale, o come evoluzione di un'altra delle malattie mieloproliferative croniche quali la policitemia vera o la trombocitemia essenziale, ed ha una sopravvivenza mediana di 3-5 anni. La causa è sconosciuta, in quanto non è stata ancora identificata una mutazione genetica associata costantemente alla malattia, sebbene in circa la metà dei soggetti siano dimostrabili alterazioni dei cromosomi. 
Un ausilio alla definizione dei meccanismi della mielofibrosi idiopatica è derivato, in questi ultimi anni, dalla caratterizzazione di due modelli animali della malattia, il primo dei quali è stato sviluppato da ricercatori francesi e statunitensi mediante la transfezione in topi del gene per l'ormone trombopoietina, che regola la crescita dei megacariociti, le cellule del sangue che danno origine alle piastrine. Una consistente serie di osservazioni sperimentali indica infatti nell'alterata crescita e maturazione dei megacariociti la causa principale della deposizione di fibre nel tessuto midollare. Più recentemente, ricercatori dell'Istituto Superiore di Sanità e delle Università di Firenze e Chieti hanno caratterizzato un modello animale alternativo, che  riproduce gli aspetti clinici della malattia in maniera più  fedele  rispetto ai topi in cui sono stati fatti aumentare a dismisura i livelli di trombopoietina. Questo ceppo murino è stato definito dei "topi GATA-1low"; si tratta di animali geneticamente modificati originati nel laboratorio del Dr. S. Orkin a Boston, e caratterizzati dalla delezione mirata di sequenze regolatorie del gene GATA-1 che bloccano la sintesi della proteina nei megacariociti.
GATA-1 è un fattore trascrizionale che regola la attività di geni essenziali per la maturazione dei megacariociti fino al rilascio di piastrine mature. I topi GATA-1low sviluppano lentamente la malattia, e mostrano con il tempo lo stesso spettro di alterazioni del midollo e delle cellule del sangue circolante che si osserva nei pazienti con la malattia conclamata; pertanto, si ritiene che questi topi rappresentino un buon modello della patologia umana, proficuamente utilizzabile per esplorarne alcuni aspetti patogenetici.
Sulla scorta di queste prime osservazioni, pubblicate nel 20021, il gruppo di ricercatori della Università di Firenze, in collaborazione con l'ISS, ha da poco completato uno studio in un consistente numero di pazienti con mielofibrosi idiopatica, il cui scopo era quello di ricercare se anche la malattia umana fosse caratterizzata da alterazioni di GATA-1. Fino ad oggi, non sono state identificate mutazioni nelle regioni codificanti del gene GATA-1, ma poiché l'equivalente umano delle sequenze regolatorie murine è noto solo in minima parte, non si può escludere che mutazioni in queste regioni esistano. Lo studio della proteina GATA-1 ha invece messo in evidenza un tratto comune al modello murino, ovvero la riduzione del suo contenuto nei megacariociti dei soggetti con mielofibrosi idiopatica. Pertanto, la ridotta espressione della proteina GATA-1 nei megacariociti accomuna la malattia dell'uomo ai topi GATA-1low, sebbene i meccanismi con cui si realizza nell'uomo sono ancora sconosciuti. Gli studi in corso potranno chiarire come si verifica la riduzione di GATA-1 nei megacariociti dei pazienti con mielofibrosi idiopatica, ma già fino da ora si apre un potenziale spiraglio per la comprensione di questa complessa patologia ematologica.

Sintomi e diagnosi
La mielofibrosi può essere asintomatica nella fase precoce di insorgenza, dopo la quale invece può dare origine a pallore, palpitazioni, dispnea, astenia e stanchezza frequente. Dolori addominali e rapido riempimento dello stomaco durante i pasti si verificano quando è presente splenomegalia. Raramente i pazienti lamentano dolori alle ossa. Nel corso della malattia, possono comparire infezioni, emorragie e, in qualche caso, la malattia può evolvere in una leucemia acuta.
Il sospetto diagnostico di  mielofibrosi idiopatica deriva, oltre che dalla clinica e in particolare dalla presenza di una splenomegalia, talmente importante in alcuni casi da occupare gran parte dell'addome, dall'esame dello striscio del sangue periferico, nel quale si possono identificare le tipiche anomalie dei globuli rossi, prima fra tutte l'aspetto a goccia. L'emocromo è un altro esame fondamentale perché in grado di evidenziare l'anemia e l'aumento di globuli bianchi; molto utile anche la conta delle cellule CD34+ nel sangue circolante. La conferma definitiva viene però dalla biopsia del midollo emopoietico che mostra le alterazioni fibrotiche.
Le terapie
Non esiste, allo stato attuale della ricerca, una terapia efficace per la mielofibrosi idiopatica. L'unica possibilità di cura è rappresentata dal trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore, che è riservato però ai soggetti di età relativamente giovane che abbiano un donatore compatibile. Il trattamento della mielofibrosi idiopatica è, dunque, essenzialmente conservativo, cioè finalizzato alla cura dei sintomi: l'anemia, mediante trasfusioni, la somministrazione di ormoni androgeni o basse dosi di cortisonici; la splenomegalia, con farmaci citostatici o, in casi selezionati, la splenectomia; l'aumento eccessivo dei globuli bianchi o delle piastrine, con citostatici come l'idrossiurea. Recenti osservazioni hanno però messo in luce le potenzialità della talidomide, un farmaco "vecchio", inizialmente utilizzata per altri scopi e che sembra esercitare una potente attività anti-angiogenetica, oltre che immunosoppressiva.

*Dirigente di Ricerca in Medicina Trasfusionale, Dipartimento di Ematologia, Oncologia e Medicina Molecolare dell'ISS
** Ordinario di Istologia, Facoltà di Medicina, Università G. D'Annunzio, Chieti-Pescara
***Associato di Ematologia, Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Firenze
(1) Vannucchi AM, Bianchi L, Cellai C, Paoletti F, Rana RA, Lorenzini R, Migliaccio G, Migliaccio AR: Development of myelofibrosis in mice genetically impaired for GATA-1 expression (GATA-1low mice). Blood 2002, 100:1123-1132


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