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Malati in prima pagina. Racconti difficili di storie rare
ISS 27/02/09
Perché con me non muoia la speranza
di Carla Massi
Carmela aveva 50 anni quando si è ammalata. Quando si è accorta che non poteva più contare sulle sue forze. Si sentiva debole, era sempre stanca. In cuor suo era convinta che fossero stati i dolori della vita ad averla fiaccata: prima era morta sua sorella a vent'anni, poi suo fratello di 34. A lei, il penoso carico di sostenere l'anziana madre e di aiutare a crescere la nipote, figlia di suo fratello. E, invece no, un destino maledetto e avverso aveva riservato per lei un'altra sorpresa: mielofibrosi, la diagnosi. Una malattia rara del midollo osseo. Il tessuto fibroso del midollo che aumenta in modo abnorme. Valori ematici impazziti: i globuli bianchi di Carmela crescevano a dismisura. I medici pensarono alla sorella uccisa dalla leucemia. Ma non era così. La fabbrica
delle sue cellule ematopoetiche (quelle che costruiscono
il sangue) si stava atrofizzando. In breve tempo, le venne detto con chiarezza, il suo midollo non avrebbe potuto più provvedere al suo equilibrio ematopoietico.
L'ha capito subito, Carmela, che non ce l'avrebbe fatta. I medici le ripetevano che, per lei, non esisteva una vera cura. Che i casi erano pochi per poter decidere quale strada scegliere. Così, proprio lei, ha deciso di fare da apripista, di mettersi a disposizione della ricerca. Diceva che voleva dare una speranza a quelli che si sarebbero ammalati dopo di lei - racconta la nipote - Per questo accettò di partecipare ad una sperimentazione. Anzi, la chiese lei con quella poca forza che il male le aveva lasciato
. Decise, così, di dire sì ad una sostanza, la talidomide, contro il parere di tutti. La nipote per prima le ripeteva quali fossero gli effetti tossici. Ma lei no, cocciuta: Servirà almeno ad escluderla dall'elenco delle possibili terapie
. In realtà, la talidomide, ha accelerato spietatamente la fine. Tremori, febbri continue, vertigini. Carmela annotava tutto su un quaderno. Anche il ricovero. Le sue difese immunitarie erano ormai azzerate: un'infezione banalissima se la portò via. La talidomide, le assicurarono tutti quelli che le volevano bene, non ci sarà più tra le ipotetiche cure per la mielofibrosi.
Per Paolo. Affetto da lupus
di Emanuela Falcetti
Dicono che il nome di questa malattia sia la causa della sua mitizzazione negativa.
Dicono che si chiami così perché quando colpisce ci strappa la carne come il morso di un lupo.
Senza un dolore. Senza un lamento.
Un lupo che cammina sulla neve senza lasciare tracce.
Un’altra malattia rara.
Si chiama lupus, ma il nome giusto sarebbe lapsus. Un lapsus genetico che di colpo sovverte l’ordine delle cose, che scambia il bene col male, che trasforma il nostro sistema immunitario in un killer senza volto.
Ma se nessuno conosce il lupo, in molti conoscono la favola in cui si è infilato. Si chiama Paolo e ed è poco più che un ragazzo. Un ragazzo che vive in un antico borgo medievale, aggrappato alle pendici della Maiella, dove anche una bufera di neve sembra una danza.
E Paolo ha sempre sentito la musica di questa danza...
Oggi, gli occhi di Paolo sono una deriva di sogni.
Sulle sue spalle non c’è nessuna traccia dei pesi dell’anima.
Prima che il lupo gliele strappasse assieme a tutti i suoi sogni, parcheggiava le ali sulla porta di casa.
Paolo potrebbe essere un santo, se solo credesse al paradiso. Invece gli basta il suo spicchio di cielo come al cielo bastano le stelle e alle stelle basta la notte.
Chissà se è questa la strada per ammansire il lupo: gettare ancora le ancore nel mare dei propri sogni. E sperare. Sperare che il lupo inciampi in uno dei nostri sogni più grandi: quello di un paese che finanzia la ricerca sulla malattie rare.
Così che Paolo possa prendere al guinzaglio il suo lupo. E tornare a vivere come solo lui sa fare.
MORFEO
di Federica Iannetti
Patrizio non può ridere troppo nè arrabbiarsi.
Non può sorprendersi nè spaventarsi.
Non può stancarsi nè andare troppo su di giri.
Patrizio non può provare emozioni: un bacio, una carezza, un brivido d’amore, un abbraccio, uno schiaffo o un urlo.
Patrizio non può guidare la macchina o correre in motorino.
Patrizio ha difficoltà a trovare lavoro.
E soprattutto non può fare le cose una dopo l’altra, senza mai fermarsi. Senza mai chiudere gli occhi. Almeno per un pò.
Patrizio non può perché…ha sonno.
Aveva 10 anni quando si addormentò la prima volta. Era agosto ed era in vacanza col papà, all’improvviso, in pieno giorno, senza motivo. Da quel giorno, ogni due o tre ore, arrivava puntuale l’appuntamento con Morfeo: crollava a scuola, sui libri, a casa o giocando con gli amici.
Patrizio era un mistero, che rimase tale per altri sei lunghi anni. Fu la semplice domanda di un medico a svelarlo: quando provi un’emozione ti senti debole e cadi addormentato?
. Una, sola, semplice domanda, con una sola, difficile, risposta: narcolessia. Il dispetto di un neurotrasmettitore che smette di far bene il suo lavoro e rende schiavi di Morfeo quattro persone ogni diecimila. Bambini, adulti, uomini e donne che dormono più degli altri ma che hanno gli stessi sogni degli altri. Come Patrizio, che è un artista, ha studiato e si è laureato sognando di insegnare arte. Ma nella realtà è sempre troppo piccolo lo spazio concesso ai sogni. E non c’è posto per un maestro che dorme
.
Patrizio fa il giardiniere, e ai fiori non importa se ogni tanto si addormenta.
Il Natale di Francesca
di Francesco Marabotto
Sfoglio i miei giorni come margherite, adesso.
Adesso che la mia mamma non c’è più e che io l’ho perdonata.
Di non aver retto il dolore di avere una figlia malata. Di essere fuggita da me e di essermi mancata ogni giorno. Conficcata nel mio dolore come l’ennesima spina di una vita vissuta fra i rovi.
L’ho perdonata. Perché tra i rovi c’è rimasta anche lei, da sola e esule per tutto il resto dei suoi giorni. L’ho perdonata perché c’è stata mia nonna a scaldarmi il cuore, a crescere me che non parlavo e non udivo, con una voce che non si articolava in parole, me che non sembravo certo la principessa delle favole.
Sindrome da rosolia congenita si chiama la mia malattia. Forse per questo sei scappata mamma. Perché la tua malattia era diventata la mia colpendomi cento volte di più.
Non è bella la mia voce. Ho detto. Ma io ho imparato a sorridere di fronte agli sguardi imbarazzati di chi non riesce a capirmi. Però mio padre capisce tutto. E traduce per me. Da quarant’anni. Era giovane mio padre quando è rimasto solo, quando ha caricato su di sé il mio futuro difficile. Oggi mia nonna non c’è più e vivo insieme a lui e al nostro cane. Insieme andiamo all’Argentario a respirare l’odore del mare.
Sfoglio i miei giorni come margherite, oggi che ho chiesto a mio padre di non lasciare che mia madre morisse da sola. Oggi che ho chiuso il mio cerchio. Il mio cuore è fragile, la mia mente agisce lentamente, non so quanto e se correrà veloce la mia malattia ma so che ogni giorno è un giorno nuovo.
E poi arriva Natale. Ho il giro del palazzo da fare. Una montagna di regali da distribuire ai bambini. E perciò tanto tempo da passare nei negozi di giochi, dove hanno cittadinanza le favole. Dove un brutto anatroccolo può diventare uno splendido cigno.
Dove è lecito a tutti sognare ancora.
Quel giorno in palestra
di Margherita De Bac
Stamattina davanti alla palestra ho incontrato Flavia.
L'incontro con Flavia rientra nella stessa logica.
Ci siamo conosciute nello spogliatoio del circolo sportivo dove tutti i giorni vado a prendere una generosa dose di endorfine (quelle naturali, prodotte dall'esercizio fisico), necessarie ormai per il buon funzionamento del mio cervello. Prima è entrato Carlo, suo figlio. L'ho osservato mentre si preparava per andare in piscina. Era in difficoltà, i movimenti scoordinati, il timore di non essere all'altezza di cambiarsi da solo. Ce la metteva tutta. Ogni tanto gli occhiali dalle lenti spesse gli cadevano sul naso. Gli indumenti gli scivolavano giù dalla panca e li raccoglieva imbarazzato. Ha dovuto lottare col maglione prima di riuscire a sfilarlo. Pochi minuti dopo è entrata Flavia e d'istinto le ho chiesto: Che malattia rara ha il tuo bambino?
. Mi ha guardata sorpresa, poi si è sciolta in un dolce sorriso e mi ha risposto: Sindrome di Cohen, ci abbiamo messo 8 anni per arrivare alla diagnosi e ancora non è finita perché le indagini genetiche sono complicate. Solo il prossimo anno dagli Stati Uniti dove stanno analizzando il Dna di Carlo, arriverà la conferma
.
La storia di questa deliziosa coppia mamma e figlio assomiglia a quelle che ho raccontato in Siamo solo noi
. Comincia con la scoperta che nel bambino c'è qualcosa che non va. Poi la lunga trafila di visite, medici, analisi, controlli che si concludono con un niente di fatto. Flavia insiste, vuole andare fino in fondo. Il marito invece cerca di mettere la testa sotto la sabbia: A che ti serve sapere il nome della malattia?
. Solo un anno fa il professor Bruno Dallapiccola arriva alla conclusione. Al 90% è sindrome di Cohen.
Rivedo Flavia a settembre, primo giorno di scuola. Scopriamo con piacere di aver iscritto i nostri figli nello stesso istituto. Sono coetanei, 11 anni, prima media. Il preside esce in cortile e fa l'appello. La mia Flavia e il suo Carlo capitano nella stessa classe. Lei ed io ci guardiamo felici.
No, non è un caso. Decisamente non è un caso. Abitiamo in un quartiere della Roma cosiddetta bene, alta borghesia. La scuola ha la fama di essere una delle migliori pubbliche di Roma. Carlo ha l'insegnante di sostegno, segue le lezioni con attenzione, al primo banco. Temendo di non essere all'altezza dei compagni, ha studiato tutta l'estate. Ogni giorno esce 10 minuti prima del suono della campanella. Quando arrivo in anticipo davanti al portone, per riportare la mia Flavia a casa, lo vedo schizzare fuori dal cancello, sotto il pesante zaino, e abbracciare forte la mamma. Mia figlia ha seguito la nascita di Siamo solo noi
e sa tutto sulle malattie rare. Senza che le abbia detto nulla, tratta Carlo con un'attenzione speciale e mi racconta di quanto lui si impegni per seguire le lezioni. E della delicatezza che istintivamente il resto della classe gli riserva. Stamattina Carlo prima di scomparire nello spogliatoio (maschile, ormai va in quello maschile e non nel femminile perché riesce a fare tutto da solo) mi ha lanciato una battuta spiritosa: Dorme ancora tua figlia eh?
. Lui va a nuotare, io alla lezione di macumba, un misto di balli sudamericani e tanto sudore. Mi ero svegliata di pessimo umore. Carlo mi ha restituito il sorriso.
Un ramo secco
di Guglielmo Pepe
Io sono una rarità ma non per questo sono anche pregiato. Ho scoperto di esserlo parecchi anni fa, quando dopo una serie di esami delicati - compresi alcuni test genetici - ho saputo di avere proprio una malattia rara. Che non comporta benefici. Anzi, è una aggravante.
Molti malati, come me, vivono in modo disperato, perché hanno poche possibilità di sopravvivenza. Inoltre le terapie sono complicate. Le famiglie poi subiscono il dramma e il peso della nostra condizione.
Insomma la mia vita è difficile, anche se non sono solo, perché nella mia situazione di paziente raro si trovano altri 15 milioni di persone, soltanto in Europa. Dunque siamo tanti, e al tempo stesso dimenticati: dall'industria farmaceutica, dalla mondo scientifico, dalla ricerca. E non perché manchino gli studiosi disposti a ricercare le terapie per combattere migliaia di patologie, talvolta gravissime. E' soltanto questione di soldi, di investimenti. Siamo milioni, per almeno 5mila malattie diverse, però abbiamo un valore relativo
nel mercato del farmaco. Perciò le terapie a nostra disposizione non sono tante e accade che quelle che possono aiutarci ci vengono somministrate con il contagocce. Perché costano. Così quando bisogna ridurre le spese, i primi a pagare siamo proprio noi, i pazienti rari
. Non chiedo molto alla sanità pubblica, anche perché da quando ho scoperto di cosa soffrivo, ho visto alcuni cambiamenti da parte delle istituzioni sanitarie, da parte delle associazioni, che sono cresciute numerose negli ultimi tempi. C'è perfino una 'rete' , come si dice nel gergo, di riferimento per noi e per i nostri parenti. Però Il Servizio sanitario nazionale sta eliminando alcune medicine 'salvavita'. Però il mio ospedale non dispensa più i farmaci che prendevo, perché costosi, e i responsabili dicono che valuteranno a chi dare gratis le medicine. Ecco: primo ero un malato raro, adesso sono anche un ramo secco
.
Da tagliare.
Il senso e il dolore
di Manuela Lucchini
Deve esserci qualcosa di più forte della paura.
Ho deciso di scrivere per me stessa, per un mio bisogno. Un bisogno incontenibile di fare ordine nei miei pensieri, e la carta è brava ad ascoltare
chi non può parlare. Ho riempito questi fogli con fatica, usando il solo dito che ancora sono in grado di muovere, quel poco che basta per cliccare sul mouse. Sullo schermo, una tastiera virtuale seleziona le lettere con un sistema a scansione. Per scrivere il mio nome impiego circa quaranta secondi. Parole sudate, quindi, le mie. Parole gustate, che volevo condividere. Quando la propria vita scivola tra le mani, niente di ciò che abbiamo sembra scontato ed ogni cosa acquista più valore. E’ strano. Qualche volta la luce si spegne all’improvviso e ci si accorge che gli occhi vedono più di prima. Condividere i miei pensieri con voi è un po’ come prestarvi per un attimo i miei occhi, per dare un senso nuovo ad ogni attimo vissuto. Per questo mi piacerebbe poter lasciare un alone di emozioni positive a chi mi leggerà. Da cercare tra le righe, forse, ma mentre io scrivevo, davanti al mio computer, le sentivo. Non lo nascondo, ho pianto anche, e riso a crepapelle mentre fermavo i miei ricordi, ma la voce che non taceva mai era quella della speranza. Era lei a dettarmi le parole. In realtà sono felice, perché un dolore chiuso in se stesso non trova senso. Solo il condividerlo può dargli significato.
Rialzarsi dopo un naufragio
di Enrico Negrotti
Non fu subito, alla nascita, quando i genitori attendono con ansia gli esiti degli screening che scongiurino la presenza delle malattie più note. No, a quell’epoca, Matilde apparve sana. È stato più tardi, quando nei primi mesi lo sviluppo motorio non seguì le tappe classiche, che i genitori cominciarono a percepire le onde di un sommovimento interiore. Verso l’anno di età poi, Matilde non voleva proprio saperne di mettersi in piedi. E allora è cominciata la tempesta, il vorticoso peregrinare da un medico all’altro, da un centro clinico specializzato a uno ancora più all’avanguardia per capire cosa impedisse di camminare a una bimba per tutto il resto tanto vivace. Infine, da un esame specifico del sangue, arrivò la risposta, e con essa il naufragio: atrofia muscolare spinale (Sma). Un naufragio su una spiaggia che appariva deserta, tanto rari sono i pazienti (un bambino su 6mila nati vivi). Di fronte ai quali i medici confessano per lo più la propria ignoranza. E che persino nelle Rianimazioni vanno informati sui protocolli di intervento non invasivi in caso di crisi respiratoria, in modo da evitare che un’intubazione si trasformi in tracheotomia, magari dopo una banale bronchite.
A poco a poco però, i genitori di Matilde si accorgono che l’isola su cui sono naufragati non è del tutto inospitale: sia perché le persone in carrozzella, per i più vari motivi, non sono poi così poche; sia perché Matilde – intelligente e socievole – riesce a condurre una vita normale, fatta di scuola, sport e musica. Inoltre i suoi compagni (e il fratellino) la adorano e non danno alcun peso al fatto che corra su una carrozzella; caso mai notano quando mette gli occhiali: allora sì che la prendono in giro. E non dimenticheranno mai quanto si sono divertiti alla festa per il quinto compleanno di Matilde: giochi organizzati, candeline e taglio della torta... tutti in carrozzella! Davanti agli occhi esterrefatti dei rispettivi genitori. A dimostrazione che spesso le barriere – non solo architettoniche – vengono più dagli adulti che dai giovani. Ma questo, in fondo, è un motivo di speranza in un futuro di accoglienza e non di discriminazione. Sempre in attesa di risposte dalla ricerca scientifica.
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