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Indietro Assegnazione di sesso e nome alla nascita

Come molti altri, anche l’ordinamento italiano si fonda su un dualismo per cui ogni persona, alla nascita, deve essere assegnata a uno dei due sessi (femminile-maschile), attribuendo un nome a esso corrispondente. La normativa richiede che la dichiarazione di nascita sia fatta entro tre giorni dal parto presso la Direzione Sanitaria dell’Ospedale o casa di cura dove è avvenuto il parto o alternativamente entro dieci giorni presso l’Ufficio di Stato Civile del Comune ove il bimbo è nato o del comune di residenza dei genitori (D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, art. 30). Nella dichiarazione, è richiesta esplicitamente l’indicazione del “sesso del bambino” (art. 29) che determina la scelta del nome cui deve corrispondere (art. 35).

Spesso, nella difficoltà circa l’attribuzione al sesso femminile o al sesso maschile, anche in Italia, vengono praticati interventi chirurgici di modifica dei caratteri sessuali per ricondurre il corpo del bambino entro canoni considerati di “normalità”, “risolvendo” così il dubbio sull’assegnazione del sesso anagrafico. A tale proposito, si ricordi il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica che raccomanda di orientare al principio del miglior interesse del bambino ogni intervento sul corpo, evitando mutilazioni non medicalmente necessarie e non urgenti e informando adeguatamente la famiglia (Comitato nazionale per la Bioetica, I disturbi della differenziazione sessuale, parere del 25.2.2010, disponibile in www.governo.it/bioetica/pareri.html).

Per l’assegnazione del sesso e dunque del nome, sarebbe invece possibile attendere lo sviluppo del corpo nei primi mesi, laddove l’ambiguità nell’apparato genitale rispetto a quanto considerato tipico per l’assegnazione al femminile o al maschile, rendano tale operazione complessa e incerta. Utilizzando la possibilità offerta dalla “dichiarazione tardiva” (art. 31, D.P.R. 396/2000), si potrebbe infatti attendere la naturale evoluzione del corpo oltre i dieci giorni previsti per la dichiarazione anagrafica e assegnare il minore al “sesso prevalente”, così evitando l’intervento chirurgico o comunque posticipando la scelta a un’età nella quale la persona direttamente interessata sia in grado di esprimere il proprio consenso.

Il trattamento medico-chirurgico, infatti, andrebbe praticato soltanto quando necessario e non differibile, verificando, caso per caso, quali siano le terapie praticabili e informando adeguatamente i genitori e la persona interessata riguardo alle diverse possibilità. Questo approccio potrebbe evitare trattamenti soltanto estetici, che, come mostrato dagli studi scientifici in materia, generano spesso un impatto negativo per l’intera esistenza della persona. Si pone come problematico il tema del consenso informato, che presuppone la necessità della piena consapevolezza da parte della persona interessata o di chi ha la titolarità delle scelte circa le conseguenze e l’impatto che verranno a generarsi, quando si acconsente a un trattamento medico-sanitario; infatti, le persone intersex riportano spesso una debole consapevolezza, ad esempio, circa l’effettivo grado di benessere raggiungibile, per quanto è da ricordare che il consenso dei genitori non può mai giustificare pratiche lesive dell’integrità del minore.


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Diritto e intersessualità